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attualita:guerra:20040905_tristi_verita_sulla_guerra_dell_orrore

Le tristi verità sulla guerra dell’orrore

di Eugenio Scalfari
domenica 5 settembre 2004

www.repubblica.it

L’indicibile orrore della strage di bambini nella scuola di Beslan provoca tre diversi tipi di reazione: la rassegnazione, l’anatema e la chiamata alle armi, l’analisi dei fatti.

Prima di entrare nel merito di quanto è accaduto, del come e del perché dell’orrore e anche del che fare esattamente tre anni dopo l’11 settembre 2001, voglio esaminare quelle tre diverse reazioni che agitano l’animo di ciascuno e di tutti gli uomini e le donne che abitano il pianeta e che hanno il privilegio di poter sollevare la testa dalle ciotole di riso e dalla brocca d’acqua inquinata che sostentano la loro breve e devastata esistenza. Perché per quei due miliardi di dannati non c’è orrore che possa scuoterli dall’incombente agonia che grava su di loro e sui loro già condannati bambini.

La rassegnazione. E l’assuefazione. Chi vi dice che porteremo per sempre negli occhi le immagini di quei bambini seminudi, sporchi di sangue, con la morte negli occhi o già scomposti cadaveri ammucchiati l’uno sull’altro o feriti e gettati sui camion in corsa verso inesistenti ospedali come gli appestati buttati sulle carrette dei monatti; chi vi dice che non saranno mai dimenticati e che serviranno almeno da monito affinché i fatti orribili non si ripetano, mente e sa di mentire.

Anche l’orrore si cancella, anzi soprattutto l’orrore. Per sopravvivere la gente lo rimuove. Lo elabora. Lo digerisce. Lo dimentica. O ci si abitua.

Impara a conviverci. Chi pensa ancora ai morti di Hiroshima e Nagasaki? Chi ai lager staliniani? Chi ai forni dell’olocausto? La sera di venerdì, dopo le raccapriccianti immagini della strage dei bambini, le televisioni di tutto il mondo hanno cambiato registro e noi con esse. Varietà, serate estive al suono di cariocas o di languide canzoni. Da noi si discettava su questa o quella attricetta in transito a Venezia e Amadeus riproponeva con diligenza i suoi quiz demenziali.

L’orrore? Certo, ma a dosi omeopatiche. Se è fatale conviverci rassegniamoci perché contro la fatalità non c’è che opporre la rassegnazione.

Israele insegna. I palestinesi di Gaza insegnano. I superstiti di tutte le guerre insegnano. Dopo il mattatoio delle trincee esplode l’età del jazz. Così va il mondo. Bisogna pur sopravvivere, non è vero?

L’anatema e la chiamata alle armi. Tutti insieme contro l’immonda, diabolica, disumana genia terrorista. “Li inseguiremo anche nei cessi e li stermineremo” ha detto Putin quando lanciò la seconda guerra cecena cinque anni fa. “Questa è la quarta guerra mondiale, durerà più delle altre, ma vinceremo anche questa” ha detto Bush alla sua folla plaudente. Le cose non stanno andando così, ma sono passati solo tre anni, siamo ancora al preludio, l’orchestra suona, i lutti e le stragi si moltiplicano, ma il sipario non si è ancora aperto.

Dalle montagne afgane la metastasi del terrore globale si è diffusa in tutto l’universo musulmano. Può darsi che qualche errore sia stato commesso, ma ora bisogna guardare al futuro e chi non salta terrorista è. Si vuole forse cambiare il timoniere mentre infuria la tempesta? Noo. Più forte, non ho sentito. Noooo. Dunque avanti e senza quartiere. Verso dove? Non si sa.

Contro quale quartiere? Non si sa. È una guerra senza frontiere. Appunto.

Senza eserciti tranne quello attaccante. Appunto. Globale. Appunto. Il nemico può essere il tuo vicino di casa. Ma “non c’è uomo più capace di proteggerci tutti di mio marito”: parole di Laura Bush. Lei sì che se ne intende.

L’analisi dei fatti. Si può ancora avventurarsi su questo periglioso sentiero sempre più stretto? Si può ancora distinguere? Personalmente non sono mai stato favorevole al “senza se e senza ma” e neppure al punto di indifferenza del “né con questo né con quello”. Mi piace sapere dove sto e con chi. E sto con la democrazia, con la libertà, con lo spirito critico. E sto per mia fortuna in buonissima compagnia. Sto con la ragione, perciò distinguo.

A Milano quando si vuol dare del matto a qualcuno si dice che la sua testa è andata insieme, cioè ha perso la capacità di distinguere.

Questo è lo spirito critico, liberale e democratico, da Montaigne a Voltaire, da Kant a Bertrand Russell. Una buona compagnia, non vi pare?

* * *

Il terrorismo nazionalistico è cosa diversa dal terrorismo ideologico e globale. Ha un obiettivo preciso e lotta per realizzarlo. Si deve presumere che se vi riuscisse si placherebbe. Le prove ci sono. In Algeria si placò quando la Francia si ritirò da quella terra che nel frattempo era diventata un dipartimento francese. In Irlanda si è placato, salvo reviviscenze sporadiche alimentate da fanatismo religioso e di clan. Nei paesi baschi forse si placherà se Zapatero riuscirà ad attuare il suo programma federale.

In Palestina non ci si è mai provato seriamente, non si è mai riusciti a vincere le resistenze dell’estrema destra israeliana e dei gruppi radicali palestinesi. L’ultimo tentativo fu quello della “roadmap” proposta da Usa, Europa, Onu. Ricordate Bush e Blair l’indomani dell’11 settembre? Spegnere l’incendio in Medio Oriente è la priorità numero uno dissero; prima ancora di dare inizio concreto alla guerra contro il terrorismo quella sarà la nostra prima preoccupazione.

Parole sagge, alle quali tutti consentirono con rinnovato entusiasmo e speranze. Parole che rimasero parole. La guerra scoppiò in Afghanistan e il governo talebano fu smantellato in un mese. Troppo poco e troppo debole militarmente il nemico per soddisfare il legittimo (?) desiderio di vendetta del popolo americano. Troppo poco politicamente per dare base duratura al consenso di massa conquistato da Bush sul cratere di Ground Zero.

Ci voleva una guerra vera, una guerra seria, anche se preventiva. Anzi, meglio se preventiva purché motivata da buone ragioni (che purtroppo si rivelarono inesistenti). E meglio se solitaria, insieme a qualche ascaro volenteroso, per dimostrare che l’Onu era un arnese arrugginito e inutile e che la vecchia Europa era un salotto pieno di tarli e di pretenziosi professori che spaccano il capello in quattro pur di non mettersi in riga e non battersi agli ordini del Presidente. Sissignore, signore.

Così ci fu la guerra irachena, che durò addirittura meno di quella afgana.

Miracolo. Ma anche guaio. Venti giorni di battaglia contro il nulla che guerra è? Con un paio di dozzine di morti tra le truppe americane e altrettanti uccisi da “fuoco amico”. In compenso le perdite tra i civili iracheni furono qualche migliaio e tra loro parecchi bambini. I bombardamenti erano mirati ma qualche volta la mira era sbagliata. In compenso il comando americano chiedeva scusa. Non basta?

Il fatto non previsto fu una notevole ribellione diffusa nella popolazione.

Ringraziavano di essere stati liberati dal tiranno, ma non volevano essere terra d’occupazione. Volevano ricostruzione e sviluppo ma non i “Marines” tra i piedi. Invece ebbero i Marines ma pochissima ricostruzione e niente sviluppo. Qualcuno cominciò a innervosirsi, qualcun altro mise mano ai fucili (ce n’erano in abbondanza) alle mine, alle bombe.

I Marines fecero il loro mestiere che non è propriamente quello delle suore di San Vincenzo. Ma come sempre accade in simili frangenti, per ogni facinoroso ribelle ucciso ne sorgevano altri dieci. Si infiammò il problema sunnita. Si lacerò il fronte sciita. Apparvero bande di tagliaborse e di tagliagola.

Dalle frontiere colpevolmente incustodite arrivò un fiume di uomini di mano e di coltello e tra loro - oh, sorpresa - gli adepti di Bin Laden. Il resto è cronaca attuale. Signori della guerra in Afghanistan, signori della guerra in Iraq. Terrorismo globale intrecciato con terrorismo locale. Tirannia e ordine con Saddam, libertà (?) e disordine sotto Bremer, proconsole di Bush.

Governi-fantoccio a Kabul e a Bagdad. Due dopoguerra catastrofali. Scrivemmo allora: hanno scoperchiato il vaso di Pandora, hanno liberato i venti devastanti di Eolo.

Questo è accaduto e questo perdura. Uniamoci tutti, siamo tutti sulla stessa barca. Ma si vorrebbe anche sapere chi deve stare ai remi e chi al timone. “Non daremo deleghe per la sicurezza dell’America” parola di Bush.

Appunto. Kofi Annan l’ha capito subito, infatti da Bagdad se n’è andato e non mostra di volerci tornare. Per fare che cosa?

* * *

Il terrorismo di tipo Al Qaeda non ha ancora conquistato l’Iraq e non lo conquisterà perché gli iracheni sono orgogliosi come tutti gli arabi. Per di più sono in maggioranza sciiti, come gli iraniani, mentre Al Qaeda insegue il sogno del califfato sunnita e wahabita.

Però Al Qaeda è riuscita a costruire una sua piattaforma operativa in Iraq dalla quale condiziona non poco le vicende irachene. Allawi, il presidente del governo-fantoccio, fa il resto. Deve essere l’uomo forte per conto dell’America. Portare il paese alla democrazia entro due anni. Con la mano di ferro.

Dieci giorni fa ha toccato con mano che Al Sistani, la guida spirituale sciita, conta molto più di lui. E che Al Sadr, il ribelle da quattro soldi che l’ha tenuto in mano per settimane, ora vuole “scendere” in politica. In una democrazia “religiosa” non c’è posto per Allawi.

Bernardo Valli ha spiegato ieri perché i prigionieri francesi non sono ancora stati liberati. Perché Allawi non schiera la sua truppa per render sicura la strada che da Falluja porta all’aeroporto di Bagdad. Perché i soldati Usa stanno combattendo l’ennesima battaglia contro il fortilizio sunnita di Falluja. La Francia, appoggiata da tutta la sua comunità islamica, da tutti i governi moderati della regione, ma perfino dalle organizzazioni terroristiche palestinesi che non si vogliono confondere con Al Qaeda, perfino dai Fratelli musulmani egiziani e dagli Hezbollah libanesi, ha dimostrato di quale prestigio goda nel mondo arabo. La Francia non ha seguito gli Usa sul terreno iracheno, ma non ha ceduto di un palmo alle richieste ultimative dei sequestratori.

Perché mai Allawi dovrebbe facilitare il rilascio degli ostaggi francesi? Per lui sarebbe un’altra sconfitta. Risulterebbe che esiste un altro modo per combattere il terrorismo e non cedere ai suoi ricatti. Allawi non ha interesse a far risultare che esiste un altro modo. Neanche Bush ha interesse. E Putin?

* * *

Putin è un’altra cosa ancora. L’ha spiegato molto bene ieri su queste pagine Sandro Viola.

Putin ha legato la sua fortuna politica alla normalizzazione della Cecenia.

In una Russia democraticamente inesistente il potere di Putin si basa sul segreto irresponsabile. Di quel che fa non risponde a nessuno. I morti del teatro Dubrovka, i morti del sommergibile atomico nello stretto di Bering, i morti dei Tupolev fatti esplodere da due kamikaze cecene che avevano occultato l’esplosivo nelle vagine. Crimini orrendi dei terroristi.

Insufficienza totale e disprezzo della vita degli ostaggi da parte delle squadre speciali Alfa e Beta. Putin non parla, nessuno glielo impone né in Russia né nel mondo democratico. Bush solidarizza con lui e lo assolve da ogni errore e peccato.

Berlusconi segue a ruota. La Cecenia è un cimitero? Grozny è un ammasso di rovine? La tortura è prassi abituale delle truppe russe? La disoccupazione al 90 per cento?

Poco importa. Trecentoventi ostaggi ammazzati, di cui la metà ragazzi e bambini. “Li inseguiremo nei cessi”.

Oggi Putin ha interesse ad accreditare la tesi che nella scuola di Beslan c’erano anche terroristi di Al Qaeda. Prove non ci sono, ma Bush gli crede sulla parola e rilancia. Se è Al Qaeda a perpetrare la strage dei bambini non si tratta più di Cecenia. La questione cecena viene cancellata dall’agenda.

Come accadrebbe se al posto di Hamas in Palestina ci fosse Bin Laden.

Putin vuole internazionalizzare la questione cecena ma riservare esclusivamente a sé il ruolo di timoniere. In Iraq non ci vuole andare neanche lui, ma è un assente giustificato. Infatti ha altro da fare.

attualita/guerra/20040905_tristi_verita_sulla_guerra_dell_orrore.txt · Last modified: 2011/02/15 10:14 by niccolo